Lo smart working: tra aspettativa e realtà

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La pandemia nei primi mesi del suo propagarsi ha messo a dura prova l’economia italiana, richiedendo in tutti i settori una rimodulazione degli orari e delle modalità di svolgimento del lavoro.

In una Italia ancora non adeguatamente “connessa”, sviluppata e pronta a sostituire i luoghi fisici con quelli virtuali ha iniziato forzatamente a diffondersi il concetto di smart working (lett. “lavoro agile”).

L’approccio a questa nuova gestione dei tempi e luoghi di lavoro non è stata immediata e ha causato da un lato iniziali disagi organizzativi per dipendenti ed aziende e una ulteriore stangata all’economia dell’indotto del settore produttivo italiano, dall’altro ha permesso di mettere alla prova un nuovo modo di intendere il lavoro ed il tempo libero.

Andiamo insieme a capire perché.

L’azzeramento delle distanze​

Come primo effetto, l’adozione dello smart working ha permesso di abbattere le distanze tra casa e lavoro: molti lavoratori pendolari o fuori sede, come ad esempio le migliaia di giovani che ogni anno emigrano da tutta Italia verso le “capitali dell’industria”, sono riusciti ad abbattere i costi economici ed energetici delle lunghe trasferte o dei traslochi a cui erano costretti per raggiungere il posto di lavoro così come quelli delle pause pranzo.

Ovviamente questo ha avuto una ripercussione sull’organizzazione (soprattutto economica) dei trasporti, degli esercizi di ristorazione e dei servizi immobiliari: grandi città come Roma e Milano si sono ritrovate improvvisamente vuote e ha avuto contemporaneamente inizio il fenomeno del South Working, il lavoro da remoto dalle regioni del Sud Italia per aziende situate nel Nord.

Tempo e spazi del lavoro

Abbattere il tempo di trasferta ha implicitamente significato l’avere maggior tempo libero a disposizione; non dover essere fisicamente presente in ufficio ha permesso a molti di essere più puntuali sia in ingresso che in uscita senza sacrificare orari dei parti ed ore si riposo. Ma allo stesso tempo nel Bel Paese sempre affezionato all’idea del lavoro legato ad un posto fisico, molti dipendenti hanno avuto difficoltà a relegare in un angolo della casa “il lavoro”, rendendo meno netta la distanza tra lavoro e vita privata e ritrovandosi a lavorare di più e più a lungo: connessi in stream al PC si fanno anche le pause-caffè con i colleghi, alcuni azzardano pause pranzo.

Molte aziende estere con sede in Italia hanno tentato di rendere meno stressante la situazione e mantenere alto lo spirito di gruppo e complicità che è difficile creare a distanza organizzando party telematici.

Ma l’abbiamo già detto: l’Italia a livello di connettività non è esattamente al passo coi tempi e quindi se già è difficile riuscire a restare in linea durante le call di lavoro, diventa ancora più difficile scegliere di trascorrere altro tempo al PC in orari in cui non sia indispensabile.

Quindi, così come solitamente si è impazienti di uscire dall’ufficio per far ritorno a casa e alla propria vita privata, in molti hanno iniziato ad attendere il momento di poter uscire di casa per poter socializzare dal vivo con altre persone: inutile dire che durante il lockdown ciò è stato impossibile e gli effetti in termini di produttività a lungo termine hanno iniziato a farsi sentire.

La situazione è stata più marcata soprattutto in quei contesti in cui la casa non è abbastanza grande da prevedere spazi privati: immaginiamo la situazione in cui possono essersi trovati dei neolaureati al primo impego abituati a studiare in biblioteca non avendo un proprio spazio in casa o quello di ambienti domestici open-space dove non c’è netta separazione tra lo spazio d’ufficio e quello dell’ambiente comune.

Smart VS Remote

Ma quindi questo smart-working non è davvero utile come si dice?

In realtà lo sarebbe, se le aziende italiane non lo confondessero con il remoteworking. Il remoteworking è il “telelavoro”, ovvero la facoltà di un dipendente di lavorare da remoto con l’articolazione oraria del proprio ufficio: è quello che in pratica è stato necessario fare con il mondo della scuola per sopperire alla necessità di non sovraffollare le aule.

Lo smart working invece è più simile al lavoro autonomo: il dipendente ha facoltà di scegliere in quale orario e quale luogo lavorare, secondo i propri obiettivi e i propri orari produttivi; può scegliere se concentrare le sue ore di lavoro settimanali in tre giorni per godersi il weekend o lavorare di notte per potersi concedere maggior tempo per i propri hobby.

In pratica, se lo smart working “all’italiana” non ha sortito gli effetti tanto paventati dai corrispondenti esteri è perché ancora non si è compreso quanto la modulazione autonoma del lavoro possa giovare alla socialità e, conseguentemente, alla produttività individuale e ci si ritrova quindi, attualmente, ad avere dipendenti ancora più alienati dal mondo a causa di impegni vincolati e costanti avanti allo schermo di un PC.

Cosa ci riserva il futuro?

Alcune aziende come Google ed Unilever hanno però intuito che una eccessiva remotizzazione del lavoro, una disorganica agilità ed una socievolezza telematica falsano e rendono difficili i meccanismi di team building necessari al buon raggiungimento degli obiettivi lavorativi e stanno iniziando a sperimentare nuove modalità di lavoro, come il lavoro misto (parte in smart-working, parte in presenza) e la settimana corta (a parità di stipendio al lavoro fino al giovedì).

Vedremo nel giro di qualche mese gli sviluppi a cui porteranno queste sperimentazioni, con la speranza che le imprese italiane si allineino a stretto giro con le corrispondenti internazionali.

Carmela Credendino

Master in Data Analyst

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